L’OLIVO: PIANTA MILLENARIA

C’è sempre stato nell’ultimo mezzo milione di anni sulla Terra e da sempre si è intrecciato con la presenza dell’Uomo molto prima che fosse sapiens, nel Terziario del Sud Africa o nella foresta sempreverde ai piedi dell’Himalaya. Ma il luogo d’elezione dell’olivo, dell’Olea europaea, prima selvatico e poi domestico è il Mediterraneo.

Le coste più calde e asciutte, quelle meglio soleggiate dove nella macchia crescono il corbezzolo e il lauro, il carrubo e l’oleastro, appunto, che ha bisogno di molto sole e poca acqua. Detesta l’umido, resiste all’arido. Arriva in alto sulle colline costiere. E sale e scende in latitudine a seconda delle ere climatiche, fuggendo o seguendo l’espandersi o il ritirarsi dei ghiacci. Noccioli di olive sono stati trovati in insediamenti paleolitici in Francia meridionale, sui Pirenei spagnoli, e anche in Germania.

C’è un gran dibattito su dove e quando sia iniziata la domesticazione dell’olivo. Difficile immaginarla lontano da quella mezzaluna fertile che ha visto per prima la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento delle principali specie animali e vegetali che hanno accompagnato lo sviluppo dell’umanità negli ultimi 10.000 anni. In quella fascia fertile tra Tigri ed Eufrate che si allunga poi verso il Mediterraneo, fino a raggiungere la costa siriano-libanese con una propaggine che si estende fino al deserto africano, reso verde dalle ricorrenti esondazioni del Nilo. È qui, nella mezzaluna, che hanno macinato e fatto il pane.

Qui sono state scelte le prime capre, più mansuete e produttive per la lana e il latte, per fare stoffa e formaggio. Da quelle parti l’uva di una vigna piantata dall’uomo è diventata vino. E in poche migliaia di anni, dai piccoli gruppi di capanne alle grandi città fortificate, è nata la nostra civiltà. E gli olivi erano lì fin dall’inizio. Già grandi, già produttivi lungo le coste della Siria, del Libano e della Palestina. Va detto che l’olio, rispetto al pane, al vino e al formaggio, ha bisogno di minor tecnica. Non deve né cuocere né fermentare. Basta raccogliere e strizzare.

Basta una grande pietra piana con una piccola scalfittura, una canaletta e un foro. Le olive dentro una rete di frasche o un sacco che prima viene stretto e poi schiacciato con un’altra pietra. Qualche goccia d’olio finisce nel buco ed è preziosa. Serviva agli Egizi per la mummificazione.  Serviva come medicina. Serviva per la pulizia del corpo, ma quasi solo dei sovrani, gli Unti. Gli Ebrei, popolo di pastori erranti, diventano stanziali in una terra già fornita di preziosi oliveti lasciati dai popoli della Cananea.

Prendendo per buona la datazione del diluvio, presente  in tante saghe religiose, a 6000 anni fa potremmo dedurre che già in quel tempo c’erano olivi dalle parti dell’Ararat.

Se ci avviciniamo di un altro millennio alla nostra era già troviamo molte altre testimonianze della presenza della coltivazione degli olivi e del commercio dell’olio dall’Asia Minore verso il Mediterraneo. Intorno al 2500 Hammurabi, nel suo Codice delle leggi assiro-babilonesi, emana norme precise sull’olio di oliva che ha già un’importanza economica come merce di scambio specialmente con gli Egiziani e all’interno per il pagamento delle tasse. Resta comunque l’importanza sacrale dell’olio usato dai sacerdoti babilonesi per la predizione del futuro: ne spruzzavano sull’acqua qualche goccia e ne traevano vaticini.

Un altro millennio trascorre e l’olio è ben saldo intorno al Mediterraneo, dove la civiltà cretese ne è, come dire, impregnata. A Creta, nel palazzo di Cnosso (il mitico Labirinto di Minosse), sono emersi dagli scavi i depositi di enormi anfore (Pithoi) alte anche due metri, adibite esclusivamente alla conservazione dell’olio; e a Festo sono stati ritrovati resti di torchi, presse e perfino tavolette d’argilla su cui erano registrati i luoghi di produzione e destinazione dell’olio.

Il commercio marittimo di olio era, infatti, alla base dell’economia dei Cretesi che lo esportavano in tutto il Mediterraneo, e particolarmente in Egitto. Proprio in Egitto, nella tomba di Ramsete III (1184-1153 a.C.) e in quella di Tutankamon (1325 a.C.), si possono ammirare affreschi che riproducono vasi da olio e rami d’olivo e allo stesso Ramsete III si deve la decisione di far impiantare il primo oliveto (2700 ettari) per la produzione di olio destinato al culto di Ra (Osiride).

Con la fine del secondo millennio l’olivo si insedia nella la civiltà micenea;  siamo già in epoca omerica, ma le testimonianze che si raccolgono sull’Iliade non menzionano l’olivo, a differenza del vino che viene più volte citato. Ne  parla però Omero nell’Odissea: è in un grande antico olivo che viene  intagliato il letto di Ulisse a Itaca. Di un verde ramo d’olivo è fatta la clava di Polifemo, una scheggia della quale servì a Ulisse per accecare il mostro

In quel tempo in Palestina gli abitanti coltivavano olivi e producevano olio in gran quantità. È stato infatti portato alla luce nei pressi di Tel Aviv un oleificio filisteo capace di produrre annualmente anche 2000 tonnellate d’olio. Era olio per l’illuminazione e per i balsami da esportare nelle terre del Nilo per le imbalsamazioni e i riti funerari egizi. A Tel Mique Akron l’enorme impianto per la lavorazione delle olive contava un centinaio di presse. Questo opificio del 1000 a.C. può essere considerato uno dei più grandi complessi industriali dell’antichità, di cui è stata calcolata una produzione annua di circa 1000-2000 tonnellate.

E se i Filistei lo producevano, i Fenici lo trasportavano con le loro navi veloci in tutto il Mediterraneo: oltre l’Egitto fino alla Cirenaica e poi oltre Cartagine, contendendo ai coloni della Magna Grecia i mercati di Sicilia e Sardegna fino alle coste ispaniche.

Gli Ateniesi ne fanno, insieme al vino, il centro della loro attività agricola, ma anche centro della loro cultura e civiltà. L’olivo simbolo di pace e di sapienza come la divinità che l’ha donato e che è nume tutelare della città.

E se il vino per i classici esalta la mente, l’olio cura il corpo e lo esalta nelle gare atletiche. L’olio unge i muscoli dei corridori e dei lottatori e il serto d’olivo selvatico adorna il capo dei vincitori.

Anche se l’olio era considerato un genere di lusso e comunque prezioso, tra le classi agiate ateniesi se ne faceva un uso giornaliero notevole. L’olio era usato per l’alimentazione, come lubrificante e l’illuminazione, per la cura del corpo e per i riti funebri con la purificazione e l’unzione dei corpi.

Grande è la produzione di profumi e di balsami derivati dall’olio d’oliva.

Ogni città fabbricava le sue anfore con forme e decorazioni particolari, ma anche allora non mancavano le truffe e le sofisticazioni.

Per un po’ le tipologie dell’olio, come del vino, mantennero le caratteristiche della loro origine, poi con i Romani nuovi olivi e nuovi usi presero il sopravvento.

Tra l’VIII e il V secolo a.C. la coltivazione dell’olivo e l’uso dell’olio si diffondono, dalle colonie costiere siciliane della Magna Grecia, nell’area centrale della penisola italica, specialmente tra gli Etruschi.

E con gli Etruschi verso l’interno e oltre gli Appennini, nella Pianura Padana e verso sud fino a Benevento. Per questi primi aristocratici etruschi l’olio resta un genere di estrema rarità. Costoso e di lusso. Sicuramente uno status symbol. Arrivava in contenitori appositi a seconda della quantità: nelle anfore per l’illuminazione e per i pochi usi alimentari.

Verso la fine del VII secolo anche gli Etruschi imparano a fare l’olio oltre al vino e producono vasi e anfore. L’olio come il vino non sono più rari e preziosi beni di lusso che vengono da lontano per pochissimi privilegiati. Diventano via via prodotti di uso più vasto, a portata di una cerchia più larga di agiati consumatori, e questo è dimostrato anche dalla sempre maggiore presenza nei corredi tombali del VI e V secolo. È a questo punto che i Romani apprendono dagli Etruschi l’arte di fare il vino e l’olio.

Roma crescerà circondata dalle terre dove si coltiva il grano, si cura la vigna, si raccolgono le olive. E su grano, vino e olio fonderà la sua ricchezza e la sua forza. Grano, vino e olio coltiveranno i suoi Patrizi, ricchi proprietari terrieri, come l’ultimo dei veterani finalmente premiato, dopo anni di servizio militare, con un pezzo di terra centuriata sempre più lontano da Roma, dove è arrivato camminando da buon legionario.

Furono proprio i Romani a esaltare l’uso alimentare dell’olio che fino a questo punto era sempre apparso secondario. L’olio va ad arricchire di grassi e di sapori le polente, le verdure e i cereali che per tutto il periodo repubblicano costituiscono la base alimentare anche dei Patrizi. E per questa utilizzazione l’olio doveva essere buono. Del resto in questo periodo furono introdotti alcuni importanti perfezionamenti nella tecnologia olearia raccontati dalle numerose opere latine di agronomia scritte a partire dal III secolo a.C.

Secondo Plinio l’Italia della metà del I secolo d.C. possedeva tanto ottimo olio e di poco prezzo da superare tutti gli altri Paesi. Le varie categorie di olio erano individuate con denominazioni chiare ed efficaci:

  • Oleum ex albis ulivisera l’olio di altissimo pregio ottenuto da olive ancora acerbe;
  • Oleum viride quello qualitativamente altrettanto valido, ricavato da olive e prossime a una maturazione incipiente;
  • Oleum maturum quello ottenuto invece da olive nere e già mature, di qualità considerevolmente inferiore ai primi due oli;
  • Oleum caducum, di qualità mediocre, quello che veniva estratto da olive raccolte da terra perché cadute dall’albero per maturazione avanzata;
  • Oleum cibarium, infine, per indicare un prodotto di pessima qualità, ottenuto da olive aggredite da parassiti e destinato in parte all’alimentazione degli schiavi e in parte a usi diversi.

Con il crescere di Roma cresce anche la quantità dell’olio utilizzato nei vari settori, come quello alimentare e per l’illuminazione, ma anche per la cosmesi e la cura del corpo, l’igiene e la medicina e anche per uso, diciamo così, meccanico-industriale come lubrificante. Le province che maggiormente contribuivano erano la Betica (Spagna meridionale), l’Africa Proconsolare (Tunisia) e la Tripolitania (Libia occidentale)

A partire dal tardo Impero, nel V secolo, la storia del bacino mediterraneo si avvia verso un lungo periodo di guerre e carestie; si produce poco, si muovono solo gli eserciti e l’olivicoltura ristagna. Il grande commercio dell’olio si ferma all’improvviso: inutile produrre, difficile viaggiare, assurdo commerciare.

Anche il clima si inasprisce. Finisce la fase calda che ha favorito la crescita dell’Impero Romano e arriva una fase molto fredda che spinge i popoli del Nord a scendere verso le rive del grande mare.

Anche l’olivo abbandona, con le legioni romane, i territori più settentrionali e nel giro di un paio di secoli sparisce anche dalle terre più adatte, come succede ai tanti segni della grandezza romana: strade, ponti, acquedotti e bonifica delle paludi. L’olivo torna a chiudersi negli orti, protetto dai muri dei conventi che per necessità liturgiche continuano a produrre olio e vino.

I nuovi popoli del Nord arrivati, poi, mal sopportano la preferenza tutta romana per l’olio come condimento di verdure e polente e preferiscono la carne e il lardo, il latte e lo strutto: solo il vino prevale sulla birra. Cambia il potere e cambia la cultura.

La popolazione si concentra intorno ai castelli. Nei feudi, specie nelle zone di media collina, si costruiscono fattorie-fortezze abitate da una decina di famiglie che si dedicano ancora alle coltivazioni del grano, della vite o dell’olivo. Non sono più gli schiavi di un tempo, ma la loro condizione di servi della gleba, legati al terreno che coltivano per il padrone, non è molto differente.

Ma l’olio ormai ha ceduto al lardo e se resiste è solo perché la Chiesa impone lunghi periodi di astinenza dalle carni e anche dal grasso animale. Comunque solo i pochi ricchi e gli ecclesiastici si possono permettere il pesce e l’olio come condimento e per illuminare i luoghi sacri.

Ma è proprio questo blocco degli scambi che costringe chi ne ha bisogno a ingegnarsi a produrlo localmente. Ecco perché la grande tradizione romana rimane nei conventi, negli orti dei monasteri, tra mille cure per sfidare il clima più freddo. Lavoro e preghiere specialmente da parte dei Benedettini.

Si dovrà attendere il ritorno di un periodo più mite intorno al Mille per assistere a una nuova espansione di vite e olivo. Saranno soprattutto le comunità monastiche, con la bonifica di terreni paludosi e la messa a dimora di nuove piante, a dare impulso all’agricoltura.

È dopo il Mille, ma prima del 1300, che la Puglia comincia a coprirsi di olivi. All’inizio con qualche incertezza si costituiscono i primi oliveti nelle zone costiere, spesso chiusi al riparo di muretti a secco. Naturalmente Venezia, che controlla tutto l’Adriatico, comincia a trasportare l’olio pugliese verso il ricco mercato padano.

Prima dell’invasione degli oli pugliesi trasportati dalle navi della Serenissima, l’espansione avviene sfruttando la fase calda tra XII e XIV secolo. L’olivo sale lungo le valli e riconquista quegli spazi e la stessa importanza che aveva avuto al tempo della prima penetrazione romana.

Nel 1158 quando le truppe del Barbarossa passano nei pressi del Garda e si accampano sotto gli ulivi secolari, i cronisti dell’epoca scandalizzati annotano, che i soldati li abbattono per fare lega da ardere, senza rendersi conto che l’olivo, sacro al Romano Impero, era del tutto indifferente all’esercito teutonico.

Ma per chi lo coltiva la preziosità dell’albero e dei suoi frutti è ancora ben presente.

Nei tre secoli prima della crisi di guerre, carestie e pestilenze  verso la metà del 1300, l’olio si impone per importanza e, nonostante l’aumento sostanzioso delle produzioni e delle aree dedicate, rimane un bene raro e prezioso. Anche il governo Pontificio, sulle cui terre la produzione è molto aumentata, stabilisce per legge che le eccedenze degli anni di abbondanza non siano del tutto vendute o esportate, ma immagazzinate presso monasteri, abbazie e sedi pubbliche.

È la situazione favorevole alla rinascita dei commerci. È arrivato il momento delle Repubbliche Marinare. Alcuni commercianti veneziani e genovesi riadattano le tecniche di approvvigionamento degli “oleari” Romani e danno nuovo impulso al commercio dell’olio su lunga tratta. Si riaprono le rotte sul mare ferme da secoli.

Indispensabile per l’alimentazione e la produzione dei saponi, l’olio d’oliva diviene uno strumento di affermazione politica con l’imposizione di una precisa legislazione sul prodotto. Per il trasporto dell’olio si costruiscono apposite navi, le “marciliane”, leggere imbarcazioni a fondo piatto, capaci di trasportare fino a 500 botti di olio d’oliva.

Intanto a Firenze sta sviluppando, prima nell’Occidente, una nuova e grande attività tessile. Le botteghe artigiane si trasformano in vere e proprie fabbriche tessili. Si fila, si tesse, si tinge la lana e con una nuova cardatura si riciclano anche gli stracci. Ma serve tanto olio per ungere le fibre e pettinare le stoffe. E tutto quest’olio non c’è sulle colline intorno a Firenze e non c’è nemmeno in Toscana.

Così i commercianti fiorentini lo vanno a cercare in Calabria, in Campania e anche in Puglia. Contemporaneamente Firenze iniziava una massiccia esportazione delle sue preziose derrate: il vino e l’olio di oliva accompagnavano le stoffe più preziose nelle ricche città del Nord Europa. Parigi, Bruges, Anversa, le Fiandre e anche Londra.

Le tecniche olearie nella storia, dapprima rudimentali, con l’avvento del Rinascimento  diventarono più meccanizzate, grazie alle scoperte storiche.

La vera rivoluzione della pressatura si ebbe con l’introduzione della pressa a leva, dove una trave appesantita da grossi massi, premeva la pasta di olive adagiata in fibre intrecciate. Plinio distingue diversi tipi di macine e dà una conferenza sulla mola. La mola olearia è dotata di una base rotonda e fissa, nel centro è incastrato un braccio della macina, che gira intorno al proprio asse. La sommità dell’asse è mobile, per non schiacciare le olive ed evitare che danneggiassero l’olio.

Un’innovazione inventata secondo Plinio dai Greci, è considerato il torchio a vite in legno. Una scoperta del famoso Archimede fece sostituire il tamburo tradizionale a razze con una vite verticale, fissata al pavimento e al soffitto con dei cuscinetti, dove veniva inserita una controvite: facendo ruotare la vite in un senso o nell’altro mediante un bastone, si poteva sollevare o abbassare la trave. Ruotando la vite e spingendo la trave verso il basso, si inserivano dei listelli che permettevano alla pressione di mantenersi costante fino alla completa spremitura delle olive.

Bibliografia di riferimento:

https://www.colturaecultura.it/capitolo/storia-dellolio

https://www.hellotaste.it/olio/storia-olio/la-produzione-dellolio-nellantichita

 

 

 

 

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