Si ritiene che l’uomo sia stato a conoscenza fin dall’antichità della
molecola che oggi conosciamo come vitamina D. La prima descrizione scientifica di un deficit di vitamina D, cioè di rachitismo, è stata fornita nel 17° secolo sia dal dottor Daniel Whistler (1645), sia dal professor Francis Glisson (1650).
Un importante passo avanti nella comprensione dei fattori causali del rachitismo è stato lo sviluppo, nel periodo 1910-30, della nutrizione come scienza sperimentale e la scoperta dell’esistenza delle vitamine.
Fu nel 1919-20 che Sir Edward Mellanby, lavorando con cani allevati esclusivamente in interni (in assenza di luce solare o ultravioletta), mise a punto una dieta che gli permise di stabilire inequivocabilmente che il rachitismo era causato da un
deficit di una componente presente in tracce nella dieta. Nel 1921
scrisse: “L’azione dei grassi nel rachitismo è dovuta a una vitamina
o a un fattore accessorio del cibo che essi contengono, probabilmente identico alla vitamina liposolubile”. Inoltre stabilì che l’olio di fegato di merluzzo era un ottimo prodotto antirachitico.
Nel 1923 Goldblatt e Soames trovarono che quando un precursore della vitamina D a livello della pelle (7-deidrocolesterolo) veniva irradiato con luce solare o luce ultravioletta, veniva prodotta una sostanza equivalente alla vitamina liposolubile.
Hess e Weinstock confermarono il detto che “la luce è uguale a
vitamina D”.
La pelle che era stata irradiata fornì una protezione assoluta contro il rachitismo, mentre la pelle non irradiata non fornì alcuna protezione; chiaramente, attraverso l’irradiazione UV era possibile produrre adeguate quantità di “vitamina liposolubile”.
La principale funzione fisiologica della vitamina D è quella di facilitare l’assorbimento intestinale del calcio.
Una grave carenza di vitamina D determina il rachitismo nei
bambini o l’osteomalacia negli adulti (quando la crescita delle ossa
è cessata) a causa di un ritardo nella mineralizzazione.
Le carenze nutrizionali sono di solito il risultato di una inadeguatezza alimentare, un diminuito assorbimento e/o un aumento del fabbisogno o dell’escrezione. Una carenza di vitamina D può verificarsi quando l’assunzione dietetica abituale è scarsa, l’esposizione alla luce solare è limitata, i reni non possono convertire la 25-idrossivitamina D nella sua forma attiva o l’assorbimento della vitamina D da parte del tratto digestivo è insufficiente. Diete carenti di vitamina D sono associate ad allergia al latte, intolleranza al lattosio, vegetarianismo e veganismo.
Alcuni gruppi di popolazione adulta sono particolarmente a rischio
di un inadeguato apporto di vitamina D.
Va tenuto presente che alle nostre latitudini circa l’80% del fabbisogno di vitamina D è garantito dall’irradiazione solare e il restante 20% viene assicurato dall’alimentazione.
La radiazione ultravioletta UVB penetra la pelle scoperta e converte il 7-deidrocolesterolo cutaneo in previtamina D3, che a sua volta diventa vitamina D3 (colecalciferolo).
La stagione, l’ora del giorno, la copertura nuvolosa,
la presenza di smog, il contenuto di melanina della pelle e
l’uso di creme solari sono tra i fattori che influenzano l’esposizione
alle radiazioni UV e la sintesi della vitamina D.
Una copertura nuvolosa completa riduce l’energia UV del 50%; l’ombra (compresa quella prodotta da un grave inquinamento) la riduce del 60%. I raggi UVB non penetrano il vetro, per cui l’esposizione al sole attraverso una finestra non determina la produzione di vitamina D. Le creme solari con fattore di protezione solare (SPF) di 8 o più sembrano bloccare i raggi UV che producono vitamina D.
Gli individui con esposizione al sole limitata devono aggiungere buone fonti di vitamina D alla loro dieta o assumere un supplemento integrativo per raggiungere i livelli sierici adeguati.
Gli anziani sono a maggior rischio di sviluppare insufficienza di vitamina D sia perché con l’invecchiamento la pelle non può sintetizzare la vitamina D in modo efficiente (a parità di esposizione solare il soggetto anziano ne produce circa il 30% in meno), sia perché tendono a passare più tempo in casa, sia perché possono avere un insufficiente apporto dietetico di vitamina D.
Individui costretti a casa, donne che indossino lunghe vesti e copricapi per motivi religiosi e persone con occupazioni che limitino
l’esposizione al sole è improbabile che ottengano un adeguato
apporto di vitamina D dalla luce solare. Poiché, come si è detto,
la conversione del 7-deidrocolesterolo avviene a seguito dell’esposizione della cute a raggi ultravioletti UVB di specifica lunghezza d’onda e la luce solare è caratterizzata dalla presenza di queste radiazioni solo per un numero limitato di ore, che peraltro varia in relazione alla stagione e alla latitudine.
Dal momento che la vitamina D è una vitamina liposolubile, il suo
assorbimento dipende dalla capacità dell’intestino di assorbire i
grassi alimentari. Gli individui che hanno una ridotta capacità intestinale di assorbire i grassi potrebbero richiedere una integrazione maggiore di vitamina D.
Il malassorbimento dei grassi è associato a una serie di condizioni mediche, tra cui alcune forme di epatopatie, la fibrosi cistica, la malattia celiaca e la malattia di Crohn, così come la colite ulcerosa.
Un indice di massa corporea ≥ 30 è associato a livelli sierici di vitamina D inferiori rispetto ai soggetti non obesi; le persone obese possono avere bisogno di un maggior apporto di vitamina D per ottenere livelli di vitamina D paragonabili a quelle di peso normale. L’obesità non influisce sulla capacità della pelle di sintetizzare la vitamina D, ma una maggiore quantità di grasso sottocutaneo sequestra la maggior parte della vitamina e modifica il suo rilascio in circolo.
Gli individui obesi che hanno subito un intervento chirurgico di bypass gastrico possono diventare carenti di vitamina D nel tempo senza un apporto sufficiente di questo nutriente attraverso alimenti o integratori, dal momento che una parte del piccolo intestino superiore in cui la vitamina D viene assorbita viene bypassato e la vitamina D viene mobilizzata nel siero dai depositi adiposi possono non essere sufficienti a compensare questa condizione con il passare del tempo.
Avere adeguati livelli di vitamina D è indispensabile per il mantenimento di appropriati livelli di calcio e fosfato nei liquidi extracellulari, condizione necessaria per garantire un buon livello di mineralizzazione ossea. Questo spiega perché la carenza di vitamina D produce a livello osseo gravi conseguenze cliniche che si traducono in una riduzione della massa ossea (sia per un secondario aumento del turnover osseo, sia per la deficitaria mineralizzazione della componente osteoide) e in un aumento del rischio di fratture, in particolare di femore.
È noto da tempo che la vitamina D è in grado di stimolare la produzione di proteine muscolari, ma soprattutto di attivare alcuni meccanismi di trasporto del calcio a livello del reticolo sarcoplasmatico, che sono essenziali nella contrazione muscolare.
In condizioni di ipovitaminosi D sono stati spesso descritti quadri di miopatia dei muscoli prossimali degli arti, di sarcopenia e di riduzione della forza muscolare, con disturbi dell’equilibrio e con conseguente aumento del rischio di cadute e quindi di fratture, specie in età senile.
Inoltre in Italia per il fatto che i cibi non vengano addizionati
con vitamina D la correzione del deficit deve essere affidata
alla integrazione.
D’altra parte, è dimostrato che in ogni fase della vita un adeguato
apporto dietetico di nutrienti fondamentali come il calcio e la vitamina D contribuisce a mantenere la salute delle ossa e a ridurre quindi il rischio di osteoporosi e di fratture in età avanzata.
Deficit di vitamina D in Italia, mito o realtà?
Gli studi epidemiologici mostrano come la carenza di vitamina
D sia effettivamente molto frequente in Italia, specie negli
anziani e nei mesi invernali. Si stima che l’86% delle donne italiane sopra i 70 anni presenti valori di vitamina D inferiori alla norma alla fine dell’inverno. Questo rilievo assume aspetti particolarmente allarmanti nei soggetti istituzionalizzati o con altre patologie concomitanti.
L’inattesa maggiore prevalenza di ipovitaminosi D nei paesi del bacino del Mediterraneo rispetto al nord Europa, notevolmente meno soleggiato, è detto “paradosso scandinavo”. Ciò è dovuto al fatto che nei paesi del nord Europa si è da tempo introdotta la prassi di integrare gli alimenti con vitamina D, pratica da noi poco attuata.
L’aumento della prevalenza e incidenza di ipovitaminosi D in Italia è in parte dovuto all’invecchiamento della popolazione; infatti il sistema enzimatico deputato alla sintesi di vitamina D diventa meno efficiente con l’invecchiamento.
Anche l’obesità e alcune terapie farmacologiche sono in grado di influenzare negativamente il metabolismo della vitamina D. Tra queste ultime, la terapia con glucocorticoidi è quella in grado di inficiare maggiormente l’azione della vitamina D.
Tuttavia, l’ipovitaminosi D è frequente anche in età relativamente giovane, a causa soprattutto di ridotto irraggiamento UVB per scarsa esposizione solare, uso di filtri solari e inquinamento ambientale. Anche la dieta non consente di sopperire al deficit di produzione endogena di vitamina D, in quanto tale elemento è presente in maniera significativa solo in pochi alimenti a prevalente elevato contenuto di grassi (olio di fegato di merluzzo e pesci grassi in particolare).
Un aspetto epidemiologico rilevante nel nostro Paese è la frequente associazione tra ipovitaminosi D e osteoporosi, soprattutto nelle donne in post-menopausa e negli uomini in età senile, che rappresenta un importante fattore di fragilità scheletrica.
Quali sono le popolazioni a maggior rischio di carenza di
vitamina D (o in cui la carenza va sospettata)?
Popolazione anziana (> 65 anni), di ambo i sessi (la carenza
spesso viene sottovalutata nel maschio).
Soggetti obesi.
Soggetti con limitata esposizione al sole.
Soggetti con pelle scura (ad esempio afroamericani).
Soggetti con malassorbimento dei grassi (ad esempio malattie
infiammatorie intestinali, malattia celiaca, alcune epatopatie, bypass gastrointestinale, ecc.).
Soggetti con magrezza spiccata e/o disturbi dell’alimentazione
(ad esempio anoressia).
Soggetti con aumentate richieste di vitamina D (gravidanza, allattamento).
Soggetti in trattamento con farmaci che interferiscono con il
metabolismo della vitamina D (anticonvulsivanti, glucocorticoidi
a lungo termine, antifungini, farmaci per il trattamento dell’AIDS,
farmaci immunosoppressori).
Soggetti con patologie che aumentano il metabolismo della vitamina
D (alcuni linfomi, malattie granulomatose, iperparatiroidismo
primario).
Soggetti con patologie dermatologiche estese (ad esempio
psoriasi, dermatite atopica, vitiligine).
Soggetti con diminuita sintesi di vitamina D attiva (insufficienza
renale cronica, grave insufficienza epatica).
Soggetti con osteoporosi od osteomalacia note, oppure con
frequenti fratture spontanee.
Soggetti con storia familiare di fratture da fragilità ossea.
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